martedì 12 marzo 2024

 

24 03 11 Come ricordo Michele Dosio, prete della Comunità di via Germanasca


Di Michele, ora mi piace ricordare, con gratitudine, come presiedeva la nostra assemblea eucaristica. Faceva sentire bene che, come il Concilio comprese e insegnò a tutte le chiese, la messa non è celebrata dal prete solo, ma da tutti i fedeli presenti, in base al sacerdozio comune a tutti i battezzati, che è, insieme al sacerdozio dei ministri, «partecipazione all'unico sacerdozio di Cristo» (Costituzione sulla Chiesa, n. 10). Perciò, dice il Concilio, nell'eucarestia «.. i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori, ma partecipino attivamente e consapevolmente... rendano grazie a Dio offrendo l'ostia immacolata non soltanto per le mani del sacerdote ma insieme a lui imparino ad offrire se stessi... in modo che Dio sia finalmente tutto in tutti» (Costituzione sulla Liturgia, n. 48).

Michele teneva molto a che questa unità si realizzasse, a cominciare dal momento in cui si arrivava, alla spicciolata, ci si salutava, qualche notizia su come sta uno come sta l'altro, le piccole novità. L'atto di riunirsi per celebrare l'eucarestia, sentivamo che è già un riunirsi con il Signore, non solo tra noi: «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro», ha promesso Gesù (Matteo 18,20). Con Carlo e Michele avevamo sentito da sempre, senza tante parole, che questo è già un sacramento, cioè un'azione tutta umana nella quale c'è anche un'azione tutta del Signore, perché si veniva non solo per noi, ma per incontrare Lui, che ha promesso la sua presenza.

Così avveniva anche dopo messa. Restare a fare due parole, a organizzare qualcosa, è sempre stata come una continuazione della riunione nella messa, non qualcosa di estraneo.

All'inizio della messa, Michele diceva sempre qualche parola sul tempo liturgico, sulla stagione dell'anno, sugli avvenimenti comuni o pubblici più importanti, su eventuali momenti speciali della Comunità: era un modo semplice per collegare il rito alle giornate della vita comune, perché il rito santo è un momento speciale, ma non isolato né staccato da tutti gli altri giorni della vita, anzi è fermento e spirito da vivere dentro gli altri giorni.

Ricordiamo che, o lui, o qualcuno per lui, assegnava le letture della sacra Scrittura ad uno o una di noi presenti. Avevamo imparato, e deciso con Michele, di non dire "Parola di Dio" alla fine delle letture del primo o del secondo Testamento, perché sappiamo che in esse c'è anche l'ispirazione divina, ma detta in parole umane, anche a volte molto umane, e spetta alla lettura attenta, studiata, interpretata, distinguere ciò che resta per sempre ispirato da Dio e ciò che è espressione storica, di quel tempo e luogo, di quel linguaggio e di quella cultura. Ci sono aspetti che sono come il veicolo umano che porta il messaggio di Dio. Michele aveva cura di spiegare questi due aspetti, specialmente quando c'era qualche maggiore difficoltà.

Il vangelo lo leggeva Michele, nel suo ruolo, e faceva omelie semplici, chiare, di cui conservava una traccia negli appunti scritti, che ci ha lasciato e ora a volte ci vengono utili nella liturgia della Parola. A volte ci chiedeva prima, per prepararci un poco, di fare l'omelia dialogata. Allora, lui introduceva e noi potevamo esprimere le riflessioni nostre sul vangelo e le altre letture. Mi pare un modo bello di far partecipare ad assimilare, ognuno col suo impegno, la Parola di Dio per la nostra vita. Oppure, a volte abbiamo invitato anche pastori evangelici, e alcune volte Michele incaricava qualcuno di noi, anche donne, a fare l'omelia.

La messa presieduta da Michele non era diversa da quella di tutte le parrocchie o comunità, ma sentivamo una partecipazione di tutti, che non avviene sempre. Ci sono delle messe che direi semplicemente "lette" dal messale, e altre "dette" dal prete, insieme o in dialogo con tutti i partecipanti, quindi più vive e coinvolgenti anche spiritualmente, interiormente. Rispetto al rito predefinito, col tempo, nella nostra esperienza di Comunità, sono intervenute alcune piccole modifiche di parole, perché il mistero della fede trovasse la giusta espressione nel nostro linguaggio e fosse comprensibile nella mentalità attuale. Per esempio: piuttosto che "onnipotente" si diceva Dio "misericordioso". La parola "onnipotente" è molto rara nel Nuovo Testamento, si trova una decina di volte, quasi solo nell'Apocalisse. Dio è onnipotente nell'amore, non in tutto ciò che noi vorremmo avere da lui. Gesù insiste sulla misericordia del Padre, che noi dobbiamo imitare tra noi.

Nel racconto della Cena del Signore, cuore della celebrazione eucaristica, il testo italiano (e solo quello italiano), dice: «... questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi». Nelle altre lingue europee, il testo liturgico ufficiale non porta le parole " offerto in sacrificio". Ma soprattutto queste parole non sono nei tre vangeli sinottici, Matteo, Marco, Luca, né in 1 Corinti 11, l'unico altro racconto della Cena nel Nuovo Testamento. Da tempo Michele diceva: «... questo è il mio corpo donato per voi». La teoria sacrificale della morte di Gesù, infatti, è una dottrina teologica non unica per la fede cristiana. Teologi di valore la mettono in discussione (p. es. Giovanni Ferretti, tra altri, in Spiritualità cristiana nel mondo moderno, Cittadella 2016, dedica molta attenzione a discutere quella teoria, anche nel sottotitolo in copertina: Per un superamento della mentalità sacrificale). Abbiamo sempre riconosciuto a Michele questo aiuto a comprendere meglio il mistero del dono di sé, della propria vita, che Gesù ha fatto senza opporsi alla violenza religiosa e politica. E' stato il suo amore così grande, totale, che ha vinto tutto il male del mondo, ed è per questo che possiamo impegnarci e sperare che la storia umana sia guidata al bene, e che il male sia progressivamente vinto, come è vinto nella risurrezione di Gesù dalla morte ingiusta.

Un paio di volte ho proposto nel consiglio di Comunità di sostituire l'altare, che evoca l'ara dei sacrifici, oppure un palco o una cattedra, con un grande tavolo-mensa a cui stare seduti, in cerchi concentrici, tutti i partecipanti all'eucarestia, come fu la Cena ebraica di Gesù. La quale comprendeva non solo gli apostoli, ma donne e bambini (come insiste Bettazzi, nell'ultimo libro, A tu per tu con Dio, 2023, pp. 74-75). Michele rinviò l'idea ma non fu contrario. Certo, non nelle grandi chiese-teatro, ma nei locali delle piccole comunità come la nostra, è possibile la fraterna Cena eucaristica "in memoria" di Gesù presente, come lui ha chiesto.

Enrico

lunedì 11 marzo 2024

 Convegno su Giannino Piana

Nuove sfide etiche

Nel Polo Teologico torinese, l'8 marzo, si è svolto un ricco convegno su Giannino Piana, teologo e pensatore della morale umana odierna. Si trova la registrazione in teologiatorino.it  "Giannino Piana, l'uomo, lo studioso, la morale". Delle diverse relazioni (Giovanni Ferretti, Francesco Compagnoni, Antonio Sacco, Paolo Mirabella,... ) devo limitarmi qui ad un appunto secondo me rilevante, dalla relazione di Franco Garelli, sociologo delle religioni e amico di Piana.

Garelli ha fatto notare che Giannino Piana, intellettuale e teologo importante, dopo un'ampia mole di lavoro e di pubblicazioni, ha toccato lucidamente anche le ultime nuove sfide etiche, convinto della fecondità del pensiero cristiano, purtroppo senza potere scrivere tutto il suo pensiero su alcuni temi ultimamente emersi, per la pesante malattia e la morte sopravvenuta. Sul fine vita ha lasciato solo un titolo "Dell'ultimo orizzonte", senza riuscire a sviluppare di più il suo pensiero.

Piana ha sentito che siamo in un'epoca di post-tutto. Gran parte della popolazione mondiale è smarrita. Agiscono fattori sociali disumanizzanti, una ideologia tecnica che domina l'uomo e ne svuota l'interiorità, rapporti di lavoro decisi dall'algoritmo, disumanizzati, choc mondiali come la pandemia, un nuovo "capitalismo della sorveglianza". L'Intelligenza artificiale pone problemi per la condizione umana, per il costo sociale di lavori umani sostituiti dalle macchine, per una tecnoscienza manipolativa che modifica il patrimonio genetico nel trans-umanesimo.

Garelli ha comunicato che Piana aveva un progetto rimasto irrealizzato, inedito, con l'editrice laica Il Mulino. Era un progetto sull'etica della vita nel versante sociale, sul "non-uccidere sociale", cioè l'uccisione non individuale ma sociale. Vedeva tre fatti gravi: la pena di morte, l'ergastolo, la tortura. E la guerra. Fenomeni in cui non appare solo l'istinto di morte, nell'interiore dell'uomo, ma appaiono realtà del mondo sociale, dove la violenza umana ha ancora campo, considerata inevitabile. Sono temi poco considerati e approfonditi in campo etico. L'ergastolo, il 41 bis, la tortura praticata abusivamente anche da forze dell'ordine che hanno il dovere di garantire l'immunità anche degli accusati. La pena di morte, bandita ma non cancellata nella coscienza di molti: indagini recenti vedono una percentuale, perfino maggioritaria, favorevole a reintrodurla. Tendenze involutive sempre in agguato insidiano il livello di civiltà morale.

Infine, per Giannino Piana, questa "guerra mondiale a pezzi" è la più rilevante violazione del non-uccidere sociale. Un intellettuale vigilante come lui sentiva che questo è un tema da rivedere, rispetto anche alle sue trattazioni passate (p. es. nel vol. III di In novità di vita, Ed. Cittadella 2013, cap. quinto, III, La promozione della pace tra i popoli, pp. 581-612), trattazioni già avanzate e attente alla cultura della nonviolenza attiva e positiva, in autori come Bori, Chiavacci, Consorti, Mattai, Pontara, Muller, Salio e altri. Giannino Piana avrebbe potuto sviluppare il suo chiaro pensiero in difesa della vita dai poteri di morte che oggi ci angosciano, ma anche stimolano le coscienze pensose e responsabili.

Enrico Peyretti (11 marzo 2024)

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mercoledì 6 marzo 2024

 24 03 06 Noi e la guerra

Questo foglio modesto e attento ha sempre considerato la guerra, le guerre del nostro mezzo secolo, un crimine politico, non una inevitabile malattia dolorosa; non una stagione rigida della storia, di cui uno storicismo cinico vuol vedere anche l'utilità. La guerra uccide. Questo basta per condannarla. Nella riflessione morale, nell'era atomica, emerge la consapevolezza che non esiste guerra giusta. Questa chiarezza è una vittoria delle coscienze che comprendono. In ambito cristiano l'illuminazione pubblica è cominciata con la Pacem in terris di papa Giovanni 1963: «Bellum alienum a ratione», la guerra è fuor di ragione. Nelle guerre ora in corso la predicazione cristiana, insieme a tanta riflessione laica, vede sempre meglio che rispondere alla guerra con la guerra, conferma estende e aggrava la guerra, malattia mortale. Il mito della vittoria bellica è sempre meno glorioso, sempre più illusorio. Meno male che nel mare di sangue della seconda guerra mondiale è affondato Hitler, e non i paesi aggrediti, ma quel mare di sangue non è venuto forse da altre guerre nazionalistiche, punitive? E la vittoria del 1945 non fu anche, come ogni vittoria, gravida di nuova più terribile guerra? L'opposizione interna al nazismo doveva essere aiutata dalle democrazie.

La guerra non è da respingere coi suoi mezzi, ma da evitare e abolire all'origine, che è la mentalità della politica come dominio, competizione, armamento, massificazione, invece che vita insieme tra differenti liberi. Lo vide chiaro Kant nel 1795, preceduto dalle sapienze antiche, e noi lo vediamo oggi tragicamente più di lui. I popoli umani lo hanno detto nel 1945 e la nostra Costituzione nel 1948: compito della politica e del diritto è «liberare le future generazioni umane dal flagello della guerra».

Cosa pensiamo, ora, davanti ad una guerra di aggressione e ad un'altra di massacro (senza dire tante altre nell'ombra)? Se pensiamo solo a mezzi di guerra, come sta facendo l'Europa dimentica del meglio di sé, precipitiamo in una tragedia che può diventare planetaria, contro la specie umana. Non ci sono formule magiche, ma ci sono direzioni valide o non valide. La direzione umana è la parola invece della bomba. Diffidare dell'aggressore come dell'espansionista è naturale e logico. Ma la trattativa si deve fare sempre, come si deve trattare col pazzo con la bomba in mano che può seppellirti con lui. Cedere qualcosa e deporre le armi è più conveniente della guerra: chiediamolo ai soldati e alle loro famiglie.

Una Costituzione per tutta la terra, rispettata anzitutto dai più forti, e civili, limiterebbe gli stati prepotenti. La relazione umana è di ragione, di parola, di mediazione, non di forza: capirlo è bello e civile, realizzarlo è il compito politico. Ma la politica non fa il suo compito quando intende rispondere alla guerra con la guerra. I "realisti" della realtà statica deridono le esperienze storiche di resistenza e di liberazione dei popoli nonviolenti, ma nella loro "realtà" a vista corta si ripete e prospera la guerra che non libera mai davvero nessuno.

Anche qui nel foglio discutiamo con franchezza davanti alle due prospettive attuali per il mondo. Io scommetto con fiducia razionale che la via umana è la riconciliazione delle culture, degli interessi (oggi eminentemente comuni a tutti), il disarmo progressivo, la comunicazione intelligente, la sconfessione popolare della guerra, la difesa della terra, la dignità di tutti. Pochi dominatori mandano i popoli ad uccidere e morire. La democrazia c'è quando i popoli si conoscono, si parlano, si aiutano. Il futuro umano passa da qui.

Enrico Peyretti, 6 marzo 2024


lunedì 4 marzo 2024

 

Filosofia di Gandhi: o potere, o amore

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Roberto Mancini, Gandhi, Al di là del principio di potere, Feltrinelli 2021, pp. 172, euro 14

(pubblicato in versione abbreviata su il foglio n. 486, gennaio 2022, p. 6)

www.ilfoglio.info

Gandhi non fu solo un santone nonviolento, un "fachiro seminudo" (per Churchill), un "idealista pratico", come diceva di sé; non fu solo l'animatore della coscienza e dignità del popolo indiano, e poi di altri. Fu anche un filosofo, cercatore della sapienza, quindi un pensatore attivo e creativo della buona convivenza umana. Con Gandhi avviene un’evoluzione possibile, nella politica, dal "principio di potere" alla verità dell'amore per la realtà. Questo libro è la filosofia di Gandhi, letta da un filosofo che sa leggere le trasformazioni profonde, come Roberto Mancini, docente all’Università di Macerata. Egli ci presenta nelle sue maggiori articolazioni il pensiero operante di Gandhi, indagato su fonti ampie, dimostrate dalla veramente abbondante bibliografia.

Esperimenti con la verità

Potere, da verbo della vita, è diventato sostantivo: strumento che impone, sottomette altri, impedisce loro di esprimere delle possibilità di vita. Il filosofo Mancini legge la validità euristica dell'opera di Gandhi: «al di là del principio di potere» come scoperta di vie inedite per l'umanità. Perciò è critico della modernità, che vede come «per eccellenza la civiltà del potere». Gandhi ha l'autorità non di chi comanda, ma di chi fa crescere coscienza e umanità. La vita di Gandhi fu «esperimenti con la verità». La verità è fonte di senso della vita. Gandhi non è assolutista, ma in continuo approccio alla verità della vita. Il suo è un "realismo trasformativo". Dalla Bhagavad Gita (testo sacro induista, III sec. a. C.) è avviato alla lotta interiore tra il bene e il male. La sua etica non è un perfezionismo, ma l'essere se stessi lasciandosi trasformare dall'amore, forza cosmica alternativa al potere. Legge Ruskin, Thoreau, Tolstoj. Apprende la politica nell'opporsi all'apartheid razzista in Sudafrica. La lotta nonviolenta è tradurre in politica la verità dell'amore. In India si impegna per i contadini poveri del Champaran, prima che per l'indipendenza. Impara dai propri errori. Dalla guerra mondiale, da Hiroshima, apprende che solo la nonviolenza potrà fermare nazismo e fascismo. L'indipendenza viene insieme alla dolorosa separazione tra India e Pakistan. È ucciso da un fondamentalista indù. Esaminiamo alcuni termini essenziali del suo pensiero-azione.

Attaccamento alla verità

Satyagraha è l'attaccamento alla verità, che dà vera forza: non la nostra forza di volontà, ma la forza della verità dell'amore. La verità è amore, e l'amore è verità. A noi "amore" suona quasi svenevolezza, invece è forza. Ed è anche capacità di soffrire, piuttosto che infliggere sofferenza. Gandhi crede nell'adwaita (non dualismo), l'unità essenziale di tutto ciò che ha vita: non una integrità personale ma una realtà di relazione. Mancini vede anche i limiti dell'idea della corporeità in Gandhi, che chiede castità come autocontrollo, ma ciò vale in lui come primato dell'amore politico per il bene comune. Il Satyagraha è l'arma di chi è davvero il più forte, e per questo esclude l'uso di ogni violenza. Dall'ateismo giovanile, Gandhi arriva a concepire Dio come verità, la forza dei deboli, al di sopra di ogni esclusivismo religioso. Dio non ha figura né concetto, ma è Voce interiore, che l'autodisciplina e l'estrema umiltà possono cogliere, e Gandhi ne ha fatto reale esperienza: «Per me quella Voce fu più reale della mia stessa esistenza» (p. 51). Fede e politica convergono nel servire la giustizia: il potere non aiuta, solo la verità aiuta, la forza metafisica che sostiene la vita del mondo. Oggi, per noi, è questo orizzonte che manca alla politica.

Nonviolenza, amore politico

Ahimsa, nonviolenza, è la forza amorevole della verità che spegne la violenza, è la forza della pazienza attiva, tenace. Ahimsa è il mezzo, la verità è il fine. Pazienza non è remissività ma forza che sostiene gli effetti della violenza, cambia la sofferenza in forza. Ahimsa cambia il terreno del confronto rispetto alla violenza, è generativa di una realtà inedita. Resistere è più che arginare o contrastare, è inaugurare una via diversa: non è ascetismo, ma trasforma situazioni sociali e processi storici. Ahimsa è il cuore della politica, è amore politico, e scaturisce dalla giustizia risanatrice, opposta alla logica di potere. La nonviolenza è alternativa non solo alla violenza, ma al potere; passa dalla logica individualista alla sapienza della coralità. Non è mera astensione dal fare violenza, ma dispiegamento della capacità di amare. Questa capacità si impara dai sofferenti, che sono i nostri maestri. L'appello della sofferenza genera in noi una forza inedita per agire. Non è idealizzazione statica, ma movimento a fare tutti i passi possibili. Ogni passo è in sé la presenza anticipata della meta.

Fini (intenzioni) e mezzi (responsabilità, efficacia) non sono separabili, come fa Weber, perché il risultato avrà la qualità dei mezzi usati, come avviene tra seme e pianta. I mezzi d'azione nonviolenti ottengono risultati di giustizia. I mezzi non sono altro che i fini stessi nel loro maturare. I fini sono già contenuti nei mezzi. L'etica della politica è l'etica della relazione di verità con tutta la comunità dei viventi. La politica è trasformata, da concorrenza per il potere, a swaraj, libertà dal male che si intromette nella relazione. La politica non è più un contrasto meccanico di forze fisiche, ma un sentimento giusto di sé per l'azione giusta per tutti. Non è una vetta irraggiungibile, ma la via per ritrovarsi nella comunione cosmica. In ciò vale anche il compromesso, non come svendita degli ideali, ma come dar tempo al tempo.

La nonviolenza dà significato alla religione, che non è una certa tradizione, ma la relazione personale con la verità viva dell'amore divino. Le religioni tradizionali, autoreferenziali, si appropriano indebitamente dell'universalità di Dio.

Indipendenza dal potere

Swaraj è la libertà dal male, l'indipendenza dal dominio, dal potere che opprime, dal consenso passivo dei dominati. Non è un altro potere indipendente, ma l'indipendenza dal potere. Gandhi vuole l'indipendenza dell'India (più di quanto l'India seppe capirlo) dalle contrapposizioni arcaico-moderno, Oriente-Occidente, verso una civiltà spirituale corale. «C'è Swaraj quando impariamo a governare noi stessi». Gandhi, conosciuto nelle fonti autentiche, non è un leader nazionalista: l'India è sorella tra le nazioni umane. Però giudica l'Occidente come «una civiltà costruita in modo da giungere all'autodistruzione». Concepisce per l'India un nuovo paradigma della democrazia, di portata potenzialmente universale. Per lui «lo spirito della democrazia richiede di interiorizzare lo spirito della fraternità». Più che il principio della maggioranza, una vera democrazia ha il criterio della protezione del più piccolo e povero membro della nazione. Ma l'Occidente ha detto “fraternité” nella Rivoluzione francese, poi l'ha dimenticata. Democrazia non è la vittoria legale di una parte, ma la maturazione etica e civile del popolo. Occorre il massimo possibile di autogoverno dei cittadini, degli organismi vicini alla vita quotidiana, delle singole nazioni, per evitare la concentrazione del potere. Ci possiamo chiedere come attuare questo principio oggi che tutto il mondo è di fatto vicino e a ridosso della vita quotidiana dei singoli. Eppure, proprio per questo dobbiamo esseri liberi dai grandi poteri concentrati.

L'umanità si fonda sulla verità o sul potere? La pratica del non-attaccamento permette di venire alla luce dello swaraj, liberi dal culto dei risultati, nel respiro dell’azione feconda. «Il governo ideale, per Gandhi, è quello che governa il minimo» e ciò non è il liberalismo, ma l'autogoverno delle persone educate allo swaraj. La giustizia giudicante ha un approccio riparativo, non punitivo.

Servizio al bene comune

Swadeshi significa servizio al bene comune, emancipazione da ciò che impedisce di servire la comunità. «Chi vuole essere amico di Dio deve restare solo, oppure deve farsi amico il mondo intero», osa dire Gandhi. La comunità non è definita da una località, ma è relazione universale, inclusiva, è un modo d'essere che non esclude nessuno. La democrazia del villaggio ha il respiro di un progetto federale cosmopolita: cerchi successivi entro un cerchio oceanico, non una piramide. La nonviolenza è incompatibile col nazionalismo. Aderire alla verità dell'amore è aderire alla vita comune universale. «Chi è dedito allo swadeshi cerca di identificarsi con il creato intero».

«L’Occidente è troppo materialista, autocentrato e ottusamente nazionalista. Noi vogliamo una coscienza internazionale che abbracci il benessere e il progresso spirituale dell’umanità intera». Democrazia è organizzare la collettività non col potere, ma col prendersi cura e col servizio, in spirito di gioia. Non basta l’indipendenza dallo straniero: occorre il non-attaccamento per aderire alla verità. L’essere umano viene alla luce quando scopre la sua libertà, e ha per madre la verità dell’amore. Il progresso umano individuale e quello collettivo sono interdipendenti. Agli occhi del potere, Gandhi sembra fallito: in realtà ha avviato una delle più alte imprese dell’umanità.

Il passaggio decisivo, nel cammino con Gandhi, è da quando pensiamo impossibile la nascita di una umanità nonviolenta, a quando non vi rinunciamo, e quindi nasciamo noi a tale umanità. Maria Zambrano: «Solo ciò che resiste alla propria distruzione è davvero vivo». Vero fallimento è la rinuncia. In Gandhi avviene il paradosso del fallimento innegabile e del successo: persiste un seme di futuro che non cede a potere e violenza. Siamo liberi dal male non solo quando lo sradichiamo da noi, ma quando non desistiamo dalla via del bene. Così è pure nella vita della società.


La vita semplice

Sarwodaya è il nome e il valore della “vita semplice”. Nanni Salio aveva fatto suo quel motto di Gandhi: «Vivere semplicemente perché tutti possano semplicemente vivere». Non è un’idea sacrificale, ma il bene comune della salvezza e felicità. Il bene di ciascuno sta nel bene di tutti. Il sarwodaya anticipa una vita libera da violenza. Chi è libero dal male, nello swaraj , e nella presenza di Dio, è nella vita semplice. Ogni persona ha un suo percorso di elevazione spirituale: «Ci sono tante religioni quanti sono gli individui». Nella società attuale, complessa e sollecitata da mille stimoli, l’ideale del sarwodaya è più difficile, ma la coscienza sveglia ci può orientare ad una felicità semplice. Pur attraverso cadute e fallimenti c’è una via di armonizzazione, purché ci immedesimiamo negli scarti umani della società. Gandhi combatté il sistema delle caste: «Un Harijana [fuori casta] è realmente un figlio di Dio», abbandonato dalla società. «Dio è Dio proprio perché difende chi è privo di ogni aiuto». Gandhi pensa la nostra filialità divina, ed è per questo che critica ogni pretesa di superiorità di una religione a danno della relazione vivente di tutti gli esseri umani con la verità divina: non il potere, ma l’amore è il principio. Il fatto che un’economia e una politica di potere producano scarti umani, è fallimento anche della religione. La nonviolenza richiede questa positiva giustizia dell’amore.

Gandhi superò progressivamente i pregiudizi della cultura del suo tempo: razzismo in Sudafrica, nazionalismo, sessismo. Lo spirito religioso dell’amore è indissolubile dalla giustizia politica: «Non potrei avere alcuna vita religiosa senza identificarmi con tutta l’umanità e questo mi è impossibile senza partecipare alla politica». La via della nonviolenza al di là del principio di potere non è per eroi eccezionali, ma per chiunque vuole risollevarsi da una crisi della propria vita.

L’economia attuale è una guerra

Oggi l’istituzione centrale della violenza è l’economia. Il mercato obbliga alla competizione, che ha il modello della guerra. La nonviolenza esige la radicale trasformazione del sistema economico e la liberazione delle sue vittime. «La legge spirituale si esprime proprio nelle comuni attività della vita, quindi coinvolge l’ambito economico, sociale e politico», scrive Gandhi. Egli prefigura un socialismo alternativo al marxismo. Marx vede l’alternativa al capitalismo come contraddizione anche violenta, per Gandhi conta la comunione e l’azione giusta ottenuta vincendo il male dentro di sé: levatrice della storia è la verità dell’amore, quindi la nonviolenza. Marx è figlio della modernità europea e non supera la logica del potere, ma solo quella del capitale. Gandhi è figlio della sapienza dell’India, in dialogo con le altre fedi e col diritto occidentale, e non è attratto dal potere. Nel socialismo gandhiano la proprietà dei mezzi di produzione è sostituita dall'amministrazione fiduciaria, il lavoro è servizio, non c’è competitività ma cura e generatività. L’economia è incentrata nella comunità locale pluralista, ogni proprietà è responsabilità, il fine di ogni impresa non è più il profitto, ma il bene comune.

La critica della proprietà è tutt’uno con la critica del potere, dato che si alimentano a vicenda. Mantenendo la propria individualità nazionale, i popoli umani formeranno una democrazia mondiale, nella libertà dal male (swaraj), perciò senza farsi violenza. Il lavoro e le tecniche non devono sfigurare l’umanità e la natura, come fa il potere violento.

Il non-possesso

Aparigraha è il non-possesso, che sradica l’identificazione tra essere e avere. Invece: uso, custodia, manutenzione dei beni per la condivisione. L’economia non è una sfera autonoma: è un’attività sociale per il servizio alla vita e al bene comune: «La vera economia è l’economia della giustizia». L’economia è da trasformare in questo senso, senza violenza od oppressione, ma col tessere la convivenza. Così è da salvare tutta la vita, che non è solo «corsa verso la morte», come pensa il nichilismo occidentale. La salvezza (moksha) non è solo dopo la morte, ma già nella trasformazione della persona, nella vita aperta alla libertà da tutti i vincoli, alla eliminazione dell’ego, a liberare il divino in noi. Il solo modo per trovare Dio, ben prima della morte, è il servizio verso tutti. «Per vedere faccia a faccia lo Spirito universale della Verità bisogna saper amare come se stessi chi è il peggiore in tutto il creato». Questo impegna in ogni ambito: «Non esito a dire che quanti dicono che la religione non ha niente a che fare con la politica, non sanno cosa sia la religione». «Superare il proprio ego è ciò che permette agli altri di vivere».

L’esperimento di Gandhi non ha dimostrazioni, salvo questa: se una persona si apre davvero all’amore che la umanizza, la sua vita diventa immensa e trova tutta la sua dignità. La salvezza esistenziale è quando viviamo non invano, ma contribuendo alla salvezza dell’umanità, alla vita, che è più del potere.

Epilogo

Nell'Epilogo, Mancini richiama i sistemi che regolano la politica: il codice Hobbes (il potere è la passione fondamentale di tutta l'umanità), il codice Mandeville (il potere è diventato sistema onnicomprensivo, inglobante), e li confronta con il codice Gandhi: egli ha reso obsoleta la lingua del potere, cominciando a parlare la lingua che nasce dall'esperienza della verità. Per lui l'autorità è la qualità di chi promuove lo sviluppo delle persone e del bene comune, l'integrità è il superamento delle scissioni nelle persone, la trasformazione etica e democratica è quando la convivenza prende forma diversa da quella del potere. È notevole che, mentre le virtù morali e civili sono oggi all'incirca quelle classiche, in politica, da Machiavelli in poi, virtù è considerata qualsiasi abilità a prendere e mantenere, di fatto, il potere. La forza è equiparata al giusto. Oppure - direi- non c'è più giusto, ma solo forza: il fatto è il valore, quindi non c'è più valore a regola dei fatti.

Gandhi mostra come la prerogativa umana è la indipendenza come libertà dal male, e l'autogoverno come adesione alla verità dell'amore. Nel codice Gandhi il metodo è dialogo, prendersi cura, partecipazione, giustizia risanatrice, amministrazione fiduciaria: non conquistare il potere, ma coltivare le possibilità di vita buona. Alternativa alla forza del potere è la forza, fragile ma irriducibile, dell'umano. Il potere occupa il vuoto lasciato dalla mancata fioritura dell'umano. L'individualismo tende al potere, l'anima alla comunione con la verità e con ogni vivente. Non possiamo dimostrare Dio o l'amore-verità con cui Gandhi ha dialogato, ma neppure possiamo concludere che nulla è tra noi se non il potere. La "prova" paradossale è che, nonostante la potenza del male, persiste il mondo e la ricerca del suo significato: «Percepisco che vi è una forza vivente che tiene tutto assieme... Questa forza o spirito informatore è Dio. Poiché niente altro di quello che vedo semplicemente coi sensi può persistere o persisterà, Egli solo è. E questa forza è benevola o malevola? La vedo esclusivamente benevola, perché vedo che in mezzo alla morte persiste la vita, in mezzo alla menzogna persiste la verità, in mezzo alle tenebre persiste la luce». (Gandhi, Antiche come le montagne, Edizioni di Comunità, Milano 1965, p. 100). Il male offende il bene ma non lo può distruggere. «La forza dell'amore, dell'anima o della verità sono la stessa cosa. Abbiamo prove dell'azione di questa forza in ogni momento. Se non ci fosse questa forza l'universo scomparirebbe». «L'unica prova possibile della verità è nella trasformazione della persona che ad essa aderisce».

Non è trionfalismo né idealizzazione. Gandhi conosce con lucidità e benevolenza, ed anche con umorismo, la debolezza umana. Vede il paradosso per cui, anche se l’uomo rinuncia alla propria dignità, la verità persiste a stargli vicina, invisibile e disarmata. È importante l'educazione dei piccoli alla bellezza della nonviolenza. Finché politica ed economia sono vincere sugli altri, si lacera il tessuto della vita. Si tratta di vincere sé stessi, l'esistere per sé, e allora si può custodire tutti i valori viventi. La storia ha senso come divenire solidale della comunità umana e della natura.

La competitività lacera l'umanità fino alla sua eliminazione. Noi, dopo Gandhi, lo vediamo. Se è la lotta per il potere che modella economia e politica, il risultato è la disgregazione. La chiave del futuro è la generatività che inaugura dinamiche di vita armonica.

Enrico Peyretti, 7 gennaio 2022

PS – Ho voluto interpellare Roberto Mancini, amico da tanti anni. Mi dice: «L’intento del libro era duplice: non solo presentare la filosofia di Gandhi, ma anche mostrare che la nonviolenza è basata sul non potere, sul rifiuto del potere che lascia il posto alla scelta della forza dell’amore. O potere o amore. Ma per i figli della cultura occidentale questo è quasi impossibile da capire». (e.p.)

Roberto Mancini, Gandhi, Al di là del principio di potere, Feltrinelli 2021, pp. 172, euro 14

 4 marzo 2024

Nessuno lo dice

Vorrei che dicesse il foglio quello che non dice nessuno, tra le voci rumorose ciacolanti sulla guerra. Tutti dicono che Putin è l'aggressore, ed è vero. Come tutti gli aggressori, Putin accampa ragioni, in parte false in parte vere. Netanyahu , in risposta al massacro del 7 ottobre, compie un super-massacro, che lo si chiami genocidio o sterminio biblico (ragioni "animali", attribuite nientemeno che a Dio). Vogliamo stare, come umani, fermi alle ragioni "animali" che stanno arrivando a distruggerci? Tutti i commenti  semplicemente obiettivi dicono queste due cose, su Putin e su Netanyahu. Nessuna delle voci rumorose dice che la vera creatività, la vera liberazione, la vera vittoria della vita e della ragione, non sta nel rispondere alla guerra con la guerra, che è imitazione e conferma della violenza, sottomissione e sconfitta della ragione, e vittoria della follia violenta, obbedita e riprodotta. La vera vittoria contro la guerra sta nel frustrare l'aggressore con la coraggiosa disobbedienza di massa. Chi impera vuole obbedienza. La resistenza popolare nonviolenta è una tecnica di difesa che ha una storia consistente, non è un'utopia sognata. Tra il 1900 e il 2019, le lotte nonviolente  hanno avuto successo per più del 50% , quelle violente solo per il 26% (Erica Chenoweth, Come risolvere i conflitti senza armi, Università di Harvard, ed. Sonda 2023). Tanti altri autori lo documentano.

Però c'è un'obiezione grave: contro il massacro - non la sottomissione - come ti difendi? E' vero. Il mite aggredito per strada a coltellate, come si difende? Lo difendono gli altri umani, che si identificano con lui e con la sua vita, il suo diritto. Come si difende un popolo aggredito a morte, come oggi - il caso più evidente - la popolazione civile di Gaza? Lo difende l'intervento non-armato degli altri popoli, di noi spettatori fatti responsabili della comune umanità. Siamo stati capaci di scrivere nelle grandi leggi che la guerra non si deve più fare, ma se un aggressore la fa, sappiamo solo pensare come lui alle armi contro le armi, che è riconoscere le armi come sovrane, superiori alla vita umana. E come possono intervenire i popoli umani in difesa non-bellica delle vite umane offese? Con la parola, sì. Sì, con il giudizio dei deboli tribunali internazionali che affermano quel tanto che abbiamo di diritto internazionale. Sì, coi tentativi diplomatici, pressioni politiche, sanzioni economiche, trattative instancabili, ("meglio un anno di trattative che un giorno di guerra" diceva Alex Langer), tutte cose che la politica sa fare, per il bene come per il male. Poi, si difende il diritto alla vita con la propria vita: con l'interposizione disarmata, forte solo della solidarietà massiccia. L'esperienza più nota fu a Sarajevo 1993, i disarmati fecero tacere le armi (lo ricordava Bettazzi poco prima di morire e di compiere cento anni), ma molte altre esperienze simili non sono registrate nella storia superficiale della forza e non della ragione. I corpi civili di pace, i caschi blu dell'Onu non-armati, l'interposizione nonviolenta al modo di Gandhi, di Badshah Khan (esercito disarmato di 100.000 uomini pakistani), di Martin Luther King, interposizione coraggiosa e numerosa, solleverebbe la coscienza dei militari a servizio degli aggressori, loro strumento fino al risveglio. Oggi molti obiettori e disertori e renitenti si sottraggono agli eserciti in guerra: sono la riserva vincente. La coscienza umana risvegliata è la maggiore forza contro la violenza. La coscienza è il luogo di Dio - comunque tu lo pensi, o non lo pensi - dentro l'uomo: è la forza vitale contro la violenza mortale. La guerra sarà vinta dalle coscienze che la ripudiano, che respingono la morte come regina della vita. L'Uomo veritiero e nonviolento, crocifisso dal clero e dall'impero, è ancora vivo per tutti, sopra le ossa morte di imperatori e condottieri, sterminatori di popoli, vincitori di guerre, ma morti per sempre. La guerra sarà vinta dal coraggio degli obiettori attivi, dal Muro Umano opposto alla violazione della vita. Non "guerra-alla-guerra", ma verità umana opposta alla disumanità. Il pericolo è estremo, la soluzione pure. Dalla guerra ci si difende solo col ripudio creativo, pratico e attivo, della guerra. (e. p.)

lunedì 26 febbraio 2024

 

Movimento Nonviolento, 37° Congresso, Roma 23-24 febbraio 2024

"OBIEZIONE ALLA GUERRA"

Pace ed elezioni europee (Testo intero dell'intervento di Enrico Peyretti)


Abbiamo imparato e stiamo imparando la storia e la sapienza operativa della pace.

Oggi la pace, la vita, è di nuovo offesa crudelmente. Nella politica corrente la pace è appena prospettata (art. 11 della Costituzione italiana; istituzione dell'Onu), ma violata. Invece, la politica umana autentica è pace, è vivere insieme in molti e differenti: la pace è il sale della terra, la luce del mondo (Matteo 5, 13-16), la realizzazione della dinamica evolutiva umana. L'attuale pratica politica è guerra, perché segue il "principio di potere" (nel senso di dominio, non di possibilità vitale), e non il principio di "amore" (Roberto Mancini, Gandhi, al di là del principio di potere. Feltrinelli 2021). Oggi, la politica bellica arriva all'estrema distruttività e offesa.

Terra, Pace, Dignità, è una iniziativa inedita, propone ciò che manca in tutte le proposte politiche esistenti, anche nelle varie piccole sinistre. Che pensarne?

I nostri movimenti culturali-etici-formativi dovrebbero, al momento dato, agire anche nel confronto democratico, per amore della vita, non per il potere sulla vita. Alcuni dei nostri migliori attivisti, si sono impegnati anche nella politica istituzionale. Alex Langer propose i Corpi civili di pace nel Parlamento Europeo. Il nostro MN ha depositato la proposta di legge per la difesa civile nonarmata nonviolenta.

Oggi c'è grave urgenza di una politica di pace. I nostri movimenti potevano essere più pronti all'impegno politico democratico. L'iniziativa Pace Terra Dignità doveva appoggiarsi alla nostra tradizione, analisi, riflessione, alla cultura di pace classica, non solo alla indignazione verso questa stagione di guerre contro l'umanità e la Terra. La politica attiva si è mossa tardi e all'improvviso sulla guerra e la pace. I movimenti per la pace guardano profondo e oltre, ma ora è il momento di guardare anche "qui e ora".

Quali possibilità per una lista Pace Terra Dignità? Sarebbe una dispersione di voti? Se le varie sinistre assumessero insieme l'obiettivo, potrebbe non fallire. I sondaggi dicono che l'opinione pubblica è contro la guerra, ma non si trova interpretata in politica. L'economia speculativa delle armi governa la politica. Assistiamo alla follia della guerra, al suo fallimento macabro e feroce.

Nelle spiritualità e religioni autentiche c'è un chiaro spirito di pace, che attende e anima l'azione politica responsabile. L'azione politica non è solo competitiva-arrivista-quantitativa, ma può avere una sua efficacia già nel porre una idea-obiettivo-azione tra le altre: anche la proposta non vincente è una proposta stimolante, creativa. Anche il tentativo audace è azione, per oggi o per domani.

C'è il grave fenomeno dell'assenteismo elettorale: quello vile dell'indifferenza, ma anche quello onesto, che cerca rappresentanza e non la trova.

In democrazia non si concorre solo per "vincere", per avere quel seguito che dà potere di governo; si concorre anche per proporre ed evidenziare l'obiettivo tragicamente dimenticato. Io, fino a convinzione contraria, sostengo Pace Terra Dignità, con zero ambizioni personali, ma con ambizioni di politica della vita: la vita insieme tra differenti-molti (polis), la "pace coi mezzi della pace" (Johan Galtung), la "convivialità delle differenze" (Tonino Bello).

Conflitto non significa guerra, se non è violento. Conflitto è come l'incrocio stradale regolato e non selvaggio; è la dinamica plurale della vita sociale nel micro e nel macro, dal villaggio al pianeta; è fattore di cammino evolutivo della giustizia, se non è violento. La nonviolenza attiva assume i conflitti sociali, denuncia quelli occultati, non li sopisce, ma li gestisce, opponendo alla violenza la "forza della verità" umana, sviluppata da Gandhi, che libera e realizza umanità.

La difesa nonviolenta non è solo utopia: è storia effettiva, quindi può essere politica effettiva. C'è ormai un'ampia letteratura storica crescente sull'efficacia della difesa nonviolenta dalla violenza. Non c'è più alcuna giustificazione della guerra "giusta" perché difensiva, che in realtà duplica la guerra offensiva. La politica corrente, anche di sinistra, ignora la possibilità dell'alternativa civile popolare nonviolenta agli eserciti e alle guerre: ma intanto l'economia speculativa criminale armista VUOLE le guerre, e le impone ai governi, per consumare e riprodurre armi, cioè uccisioni di umani e distruzione della casa-Terra. Per questo, i nonviolenti giudicano insufficienti le proposte di pace che non esplicitano davvero la necessità del disarmo condizione di pace.

Pochi giorni fa è morto Johan Galthung: lo onoriamo come primo promotore della peace research moderna, scienziato e operatore della soluzione nonviolenta dei conflitti. La lotta giusta nonviolenta è storia reale, ma ancora censurata dalle politiche statali. Per esempio, la rivoluzione femminile, dal Novecento ad oggi, è nonviolenta e fortemente efficace. Tra gli studiosi, Erica Chenoweth (Università di Harward) ha iniziato la sua ricerca in posizione scettica sulle possibilità di resistenza nonviolenta alla violenza, scoprendo poi che, nel periodo 1900-2019, più del 50% delle rivoluzioni nonviolente ha avuto successo, mentre, delle rivoluzioni violente, solo il 26% ha avuto successo . Il libro di Erica Chenoweth (Come risolvere i conflitti senza armi e senza odio... Ed Sonda 2021,  450 pagine di dati e tabelle), è solo uno dei più recenti di quell'ampia letteratura storica reale. Manca la proposta politica e organizzativa: i corpi civili di pace; la difesa nonarmata, popolare, nonviolenta. La proposta Pace Terra Dignità, nel suo programma concettualmente ricco, cammina sulla via della pace, realizzazione dell'arte politica umana. È da conoscere e nutrire con l'esperienza dei movimenti nonviolenti.

Enrico Peyretti

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